da mercoledì 9 a sabato 12 novembre ore 21
domenica 13 novembre ore 17,30
tratto da Herik Ibsen
adattamento e regia Stefano Sabelli
con Eva Sabelli, Gianantonio Martinoni, Bianca Mastromonaco, Mauro D’Amico, Fabrizio Russo
musici di scena Piermarino Spina e Roberto Di Marzo
scene Francesco Fassone
allestimenti Michelangelo Tomaro
costumi Martina Eschini
luci Daniele Passeri
tecnico Giuseppe Follacchio
Teatro del Loto
Traducendo e riadattando il testo dell’autore norvegese, Stefano Sabelli mette in scena per il Teatro del Loto una favola, dove tempi, spazi e luoghi si sovrappongono in un’età e in un gioco temporale indefiniti. La storia del simpatico perdigiorno che trascorre l’esistenza edonisticamente, tra piaceri materiali e trovate fantastiche, rappresenta il cammino della vita, della ricerca di sé stessi nel contatto col mondo reale e irreale: una metaforica ricognizione nella natura umana che assume quasi i connotati di un’avventura faustiana. Lo spettacolo è un caleidoscopio di visioni fantastiche e irresistibili mutamenti scenici, dove la vita di Peer – personaggio che interpreta anche tutte le sfide romantiche dell’uomo ottocentesco alle prese con la rivoluzione industriale e la modernità – si snocciola come uno schioccare di dita che mette in comunicazione in uno stesso tempo, visibile e no, tutte le età dell’uomo, sfogliate come gli strati di una cipolla, alla ricerca di un cuore che – come l’isola – non c’è. Peer Gynt, simpatica canaglia, spaccone e ribelle, bugiardo come Pinocchio e riluttante a crescere come Peter Pan – personaggi di cui è a suo modo antesignano e che questa regia tiene presenti – passa da una frottola all’altra, come da un’avventura all’altra. Seguendo, impavido, l’imperativo: “sii te stesso!”, trascorre la sua vita in un mondo dove fantasia e realtà finiscono per confondersi. Attraversa tutti gli stati e gli stadi della vita, Peer. Rifiutando in principio l’amore sincero della dolce Solvejg, persa anche la madre Aase – l’unica che riusciva a tenergli testa nel suo mondo fantastico, e che sovrappone a sé nella caccia all’Io Gyntiano – Peer prende a viaggiare per paesi esotici e lontani, cimentandosi in mille mestieri ed esperienze. Così, mentre caccia la renna, in bilico sulla Cresta di Gendin, affilata come una falce e a ridosso di fiordi bui e sonnolenti, Peer è proscritto e bandito dal suo paese per aver sedotto e abbandonato una giovane sposa, il giorno del matrimonio. Rifugiatosi sui monti, fra boschi e foreste, è risucchiato nel mondo dei Troll (qui rappresentato come una Suburra romana dai contorni barocchi, in omaggio al viaggio in Italia che ha ispirato Ibsen) fra orge e baccanali. Padrone di schiavi in America, scopre il mal d’Africa, animando dotte conversazioni da Te nel Deserto, fra i rossi tramonti del Marocco. Deriso e depredato dalle scimmie di Gibilterra è salvato e poi sedotto da odalische berbere, che danzano come Salomè. In Egitto, si esalta alla vista delle Piramidi (e di Sfingi parlanti) come pure si appassiona delle scoperte antropologiche, nel manicomio del Cairo. Naufrago nel Mare del Nord, alla fine si ritrova lì: nel paese natio che lo aveva proscritto, spettatore del suo funerale nella chiesa Agstad, senza essere riuscito a liberarsi dalla tirannia del proprio Io. Un Io che, infine, sfoglia come una cipolla: tolte le coltri sovrapposte, non resta che il nulla. Anche se, la dolce Solvejg, da cui era fuggito e che prende le forme di tutte le figure femminili che incontra, o sogna, nel suo cammino, è sempre lì, ad attenderlo, amandolo fedele… ora, ancora e sempre.
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