
RESIDENZA
Dal 2 al 7 Marzo
OLTRE
Come 16 + 29 persone hanno attraversato il disastro delle Ande
di Fabiana Iacozzilli
Il 13 ottobre 1972 il volo 571 dell’aeronautica militare uruguaiana si schiantò sulle Ande con quarantacinque persone a bordo. Il volo trasportava i membri della squadra di rugby Old Christians Club, insieme ad alcuni amici e familiari. I ragazzi avrebbero dovuto affrontare una partita. La rotta era da Montevideo, in Uruguay, a Santiago, in Cile. Solo un passeggero non aveva alcun legame con la squadra. Allo schianto sopravvissero in ventinove e dopo settantadue giorni solo sedici di loro furono salvati dai soccorsi. I corpi dei cadaveri furono utilizzati dai sopravvissuti per nutrirsi e continuare a vivere.
La storia del disastro delle Ande è stata raccontata più volte e l’accento è stato spesso posto sull’antropofagia, sul momento in cui degli esseri umani hanno scelto di cibarsi dei corpi dei loro compagni di squadra per continuare a lottare contro la montagna. Sicuramente questo elemento è il punto nevralgico della storia, motivo di interesse e occasione di sprofondamento all’interno di questioni che hanno a che fare con l’umano e con tabù primitivi. Le domande che con Linda Dalisi ci spingono ad affrontare questo nuovo progetto, si concentrano più sul pensiero, condiviso dal gruppo di sopravvissuti, che nell’antropofagia si sarebbe raggiunta, unitamente alla loro sopravvivenza, quella dei loro amici: i morti avrebbero continuato a vivere in loro, attraverso e dentro i loro corpi, in quanto i muscoli e le viscere dei cadaveri sarebbero diventati nuova energia per chi stava lottando per vivere. In questo atto estremo di cannibalismo si vede in controluce un atto sacro di comunione: la trasformazione del corpo di amici morti nei muscoli e nei respiri ostinati che hanno permesso ai due sopravvissuti camminatori (Roberto Canessa e Nando Parrado) di affrontare una traversata di dieci giorni e arrivare alla salvezza. I due uomini erano infatti partiti solo con otto calze da rugby piene di grasso e carne dei loro amici.
Da qui le domande/fondamenta su cui stiamo edificando il progetto: fin dove siamo pronti a spingerci pur di sopravvivere? Come i miei muscoli, il mio cuore, le mie ossa e le mie viscere tutte, possono partecipare al progetto di sopravvivenza di altri esseri umani e diventare così l’energia e i muscoli e il sangue che li spingono verso la salvezza? Possiamo rinascere nel corpo di un altro? Non è in fondo vero che gli esseri umani muoiono solo quando smettono di essere ricordati? Ci si chiede inoltre se quei ragazzi sarebbero ugualmente riusciti a sopravvivere se non fossero stati parte di una squadra di rugby, un gioco in cui durante la mischia gli avanti delle due squadre si avvinghiano e i giocatori premono con la testa contro la testa e le spalle degli avversari contrapposti, un gioco bello e a tratti brutale dove il giocatore che pone la palla sulla linea mediana non è il più abile, ma, il più delle volte, l’ultimo anello di una catena. Nel rugby esiste un tiro particolare il calcio di trasformazione anche detto di conversione e il nostro vuole essere un progetto sulla rinascita e sulla trasformazione più che sulla catastrofe.
“Le domande che con Linda Dalisi ci spingono ad affrontare questo nuovo progetto si nutrono però più del pensiero condiviso dal gruppo di sopravvissuti c’era una strana forma di sopravvivenza dei loro amici, che i morti avrebbero continuato a vivere in loro, attraverso e dentro i loro corpi e che i muscoli e le viscere dei cadaveri sarebbero diventati nuova energia nei corpi dei sopravvissuti. Nella scelta della lingua scenica risiede il mio desiderio di ritornare al teatro di figura e di ritornarci approdando ad un linguaggio diverso che non sia più quello delle marionette da tavolo utilizzate ne La classe ma che possa condurre il gruppo di lavoro alla sperimentazione con dei puppets da corpo. Questi puppets a grandezza naturale progettati da Paola Villani sono realizzati con materiali che possono essere manipolati in scena per consentire ai corpi delle marionette di smagrire e diventare scheletrici davanti agli occhi del pubblico.” (Fabiana Iacozzilli)
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Fabiana Iacozzilli, regista e autrice porta avanti un lavoro di ricerca improntato sulla drammaturgia scenica e sulle potenzialità espressive della figura del performer. Dal 2013 è artista residente al Teatro Vascello e dal 2017 collabora con Cranpi e Carrozzerie N.O.T. Nel 2008 fonda la compagnia Lafabbrica e dal 2011 è membro del LINCOLN CENTER DIRECTORS LAB. Tra i suoi spettacoli: Aspettando Nil con il quale vince l’Undergroundzero Festival di New York; La trilogia dell’attesa vincitrice del Play Festival (Atir e Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa); Da soli non si è cattivi. Tre atti unici dai racconti di T. Tomasulo La classe che vince il bando di residenze interregionali CURA 2018, il Premio In-Box 2019, il Premio della Critica ANCT 2019 e ottiene quattro nomination UBU 2019 (miglior progetto sonoro vinto da H.B. Westkemper). Nel luglio 2020 Una cosa enorme debutta alla Biennale Teatro 2020 e replica a REF2021. Nel 2021 è regista di Abitare il ritorno, progetto che nel 2022 vince il Bando CIVIS Open/Lab/Civic engagement – Festival Teatrale “Teatro delle migrazioni”. Nel 2022 cura la mise en lecture di En Abyme per la Biennale di Venezia 2022, spettacolo con il quale debutta in prima nazionale nel giugno 2023 alla Biennale di Venezia. Nel 2023 cura insieme a Cranpi il progetto Piccole donne – da L.M. Alcott – un laboratorio di teatro integrato con giovani donne che soffrono di disturbi alimentari.